Da Mulberry Street fino alle nuove mobilità: l’Italian Lifestyle

Come si diffonde uno stile di vita? Come si sono diffuse nel mondo tradizioni, abitudini e, quindi, prodotti di un paese come l’Italia? Perché l’inglese sia divenuta la lingua veicolare è di facile intuizione. Parimenti, come abbia retto il francese, fino almeno qualche decennio fa. Al contrario, la diffusione della pizza, la pummarola, lo stracchino o il Chianti, rispetto all’opera, è vicenda ben diversa.

Nel primo caso, la storia degli ultimi due secoli ci fornisce interpretazioni chiare che vanno oltre le narrazioni complesse. L’epoca dell’imperialismo europeo (1870-1914) e la sua fase finale, giunta fin quasi ai giorni nostri, giustificano il perché di tante cose che ai nostri occhi sembrano scontate e sulle quali non ci soffermiamo più. Nel caso italiano, invece, il percorso è del tutto diverso, ma speculare e fortemente legato al fenomeno migratorio, che – indipendentemente da come la si pensi – è uno dei pochissimi elementi che hanno caratterizzato questo paese dal punto di vista identitario. A dire il vero, già agli albori della grande emigrazione – che corrisponde con il periodo dell’imperialismo europeo – le classi dirigenti dell’epoca sperarono di poter aumentare il flebile export attraverso il processo migratorio. Si crearono strumenti di fiscalità di vantaggio, si abbatterono i costi dei vettori rispetto alle merci, caricando questi costi sui migranti dell’epoca. I grandi bastimenti che partivano da Genova come da Napoli divennero città, empori mobili che trasportavano prodotti per quella stessa umanità che partiva alla ricerca di orizzonti nuovi. La migrazione apriva scenari impensabili fino a qualche decennio prima. Il paradosso di questo processo globale, perché tale è stato è tale è, sta nel fatto che l’immigrazione fino ai primi decenni dell’Ottocento era vista come un processo salvifico nella piccola Europa, mentre l’emigrazione veniva ostacolata in tutti i modi. Vista la strutturale carenza demografica, paesi come la Francia incentivavano l’arrivo degli stranieri nel periodo napoleonico. Lo stesso avveniva nell’Inghilterra vittoriana, ormai assurta a superpotenza. Il paradigma si modificò nella prima metà dell’Ottocento, quando i processi produttivi stavano cambiando, i paesi si stavano industrializzando e le colonie rappresentavano nuove fonti da cui attingere e nella quali inviare persone e gruppi sociali meno graditi. È in questa fase che si sviluppa il concetto di emigrazione per come lo conosciamo ancora oggi. All’epoca serviva a giustificare nei confronti dell’opinione pubblica gli ingenti investimenti diretti e indiretti previsti nelle colonie. In questo quadro, la piccola e neonata Italia tentò di sedersi al tavolo dei grandi, di divenire potenza coloniale, ma come sappiamo ci riuscì in maniera insignificante. Tuttavia, nello stesso periodo avviò un processo di colonizzazione diverso, attraverso le donne e gli uomini che la lasciarono, arrivando due secoli dopo a conquistare uno spazio globale e nuovi mercati. Volendola sintetizzare, questa storia iniziò a Mulberry Street – quella che diverrà la Little Italy newyorkese – proseguendo parallelamente nel quartiere della Boca di Buenos Aires, a San Paolo in Brasile, fino alle periferie delle principali città europee. L’Italian Lifestyle nacque così, offrendo alle aziende italiane nuovi spazi fino ad allora impensabili. Improvvisamente, ovunque si riproposero mercati, vetrine e spazi che riproducevano pezzi d’Italia nel mondo. Infatti, non fu un caso che per quasi un secolo i nomignoli dispregiativi con i quali venivano identificati gli italiani nel mondo erano legati agli aspetti culinari. Mangiatori di pasta, maccaronì, mangia polenta, e tanti altri vezzeggiativi che ne hanno contraddistinto la presenza. Il tutto poi, si concretizzò, per come lo conosciamo oggi, con gli anni Ottanta del Novecento, dove la «Milano da bere» globalizzò in una veste moderna un processo che durava ormai da quasi due secoli.

Oggi non parliamo più di emigrazione, bensì di mobilità, di fuga di talenti e cervelli, di acquisizioni di know how. Siamo preoccupati dell’involuzione demografica, dell’invecchiamento diffuso e, nonostante questo, non riusciamo a percepire la migrazione come una ricchezza, bensì come un danno, una paura da sconfiggere. La storia ci insegna che dove c’è stata migrazione, in entrata e in uscita, dove questa è stata resa circolare, a partire dai tempi del Mare Nostrum – che non è il programma di gestione dei migranti, bensì il modo attraverso il quale Roma identifico lo spazio del Mediterraneo per quasi un millennio –, dove vi è stata mobilità, la contaminazione tra popoli culture e tradizioni ha fornito il più grande contribuito alla produzione di ricchezza. D’altronde, se pensassimo per un solo istante ai tanti prodotti che identifichiamo come nazionali, regionali o locali, ripercorrendone la storia, comprenderemmo che sono il frutto di questo processo. Questo vale per la cioccolata nordeuropea, come per la pasta o i pomodori, segno distintivo dell’italianità nel mondo. Un prodotto può essere esportato se qualitativamente valido, richiesto e, quindi, se si è creato un mercato, se si hanno gli strumenti o l’organizzazione produttiva. Uno stile di vita e una concezione del vivere –  a sua volta indissolubilmente legata ai luoghi della produzione, ai singoli prodotti frutto di secoli, se non millenni, di stratificazioni e contaminazioni umane – possono essere diffuse e esportate solo se accompagnate da una narrativa vivente, da un processo culturale forte. Per fare questo, ancora una volta la storia ci insegna che il miglior processo di export si regge inevitabilmente sulle gambe, le braccia, i cervelli e, perché no, i cuori delle italiane e degli italiani che quotidianamente vivono questo nostro mondo, che diventa ogni giorno più piccolo e interconnesso.

*storico delle migrazioni – Université de Genève