E’ finito il tempo dei “pannicelli caldi”

La produzione industriale italiana ha subìto una brusca battuta d’arresto alla fine di dicembre scorso, registrando una flessione del 3,5% mese su mese e del 7,35 su base annua. Purtroppo sono i numeri peggiori dal 2009. Il Prodotto Interno Lordo italiano ha fatto segnare la seconda variazione congiunturale negativa consecutiva decretando l’ingresso del Paese nell’area della cosiddetta “recessione tecnica”. L’export italiano, che aveva retto bene nella procella della crisi mondiale del 2008, grazie al suo settore manifatturiero e al “Made in Italy”, a dicembre 2018 ha registrato una flessione abbastanza vistosa (-2,3%) probabilmente da ascrivere al netto calo delle vendite verso i mercati extra Ue (-5,6%), mentre l’area UE registra una contenuta crescita (+0,5%). Lo spread è aumentato di oltre cento punti nell’ultimo anno. Al 31 dicembre del 2018 il debito delle Amministrazioni pubbliche era pari a 2.316,7 miliardi; a fine 2017 il debito ammontava a 2.263,5 miliardi (131,2 per cento del PIL). Questi sono solo alcuni dei dati che l’Istat e la Banca d’Italia hanno autorevolmente pubblicato in questi mesi. Naturalmente si sono sprecate e si sprecano ancora interpretazioni, a volte genuine e altre volte meno. Su questo vulcano di numeri spesso si accendono gli zolfanelli della polemica preconcetta e precostituita. Spesso nella polemiche le imprese finiscono sul bando degli imputati, dimenticando il loro positivo ruolo che hanno avuto nel tempo per far diventare una economia nazionale sostanzialmente agricola in una moderna economia industriale. Il mondo delle imprese per investire deve nutrire fiducia, figlia, quest’ultima, di stabilità e di scelte politiche non equivoche. Il nodo del costo del lavoro è un elemento che non riesce ad essere affrontato, da tempo. Negli ultimi venti anni sono stati fatti vari tentativi di intervenire sul cuneo fiscale del lavoro. Ma, di fondo, è sempre mancata la volontà di una scelta decisa, utilizzando la tecnica dei “pannicelli caldi” evitando quindi di affrontare le questioni decisive rinviandole nel tempo. Quando il mondo viveva la condizione della divisione mondiale bipolare, derivante dalla cosiddetta “guerra fredda”, l’economia italiana si collocava, bene o male, in un’ area protetta. Il sistema industriale italiano in sostanza, fino al 1989, poteva essere considerato alla stregua di una Thailandia o di un Vietnam dell’occidente, caratterizzato da salari bassi e conquiste sociali deboli. Il crollo del muro di Berlino ha trovato l’Italia in crisi di competitività dovendo confrontarsi per la prima volta con la vera Thailandia o il vero Vietnam. Il confronto, impietoso sul piano del costo del lavoro e delle conquiste sociali, era compensato dalla grande qualità della nostra industria manifatturiera, che resta ancora la seconda in Europa dopo la Germania, ormai unificata, e dagli interventi di politica monetaria attraverso continue svalutazioni. Il dato odierno, nonostante il cappello protettivo dell’ UE, ci restituisce un’ Italia in affanno e arrancante. Quando gli altri paesi europei crescono, l’Italia cresce sempre di meno, quando gli altri flettono, l’Italia lo fa sempre in misura maggiore.

Difendere il sistema industriale, soprattutto quello delle piccole e medie imprese, non può essere più considerata una politica episodica ma deve diventare una costante e soprattutto fatta con coerenza. Immaginare di diminuire gli investimenti in infrastrutture qualificate significa consegnare un membro del G8 all’involuzione e al sottosviluppo. Ipotizzare una furbesca divisione regionale rafforzata significa non risolvere alcun problema.

Questo è il tempo, per il bene della comunità nazionale in un’ottica di coesione europea, delle decisioni forti e non più dei “pannicelli caldi”.