La guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina registra costantemente nuovi sviluppi su quelli che saranno i nuovi equilibri di potere sullo scacchiere internazionale.
Da questo punto di vista, la cosiddetta “guerra commerciale” non ha solo un rilievo economico, ma soprattutto di ordine geopolitico in quanto la linea del confronto tra Stati Uniti e Cina è destinata a produrre conseguenze su tutti gli scenari globali.
L’impronta data da Donald Trump alla politica estera americana non è fatta solo di esibizione muscolare, ma ispirata alla scuola del “realismo kissengeriano” che privilegia il confronto diretto tra le grandi potenze piuttosto che la concertazione multilaterale.
Infatti, a conclusione del secondo capitolo del confronto tenutosi all’Eisenhower Executive Office, nei pressi della Casa Bianca, tra la delegazione cinese rappresentata da Liu He (la personalità dell’esecutivo cinese più ascoltata da Xi Jinping) e la delegazione americana rappresentata da Robert Lighthizer, il Presidente Trump si è espresso in questi termini su Twitter: “gli incontri sono andati bene, le intenzioni sono buone da entrambe le parti, ma non ci sarà un accordo definitivo fino a quando io e il mio amico presidente Xi non ci incontreremo nel prossimo futuro, per discutere e accordarci su alcuni punti complessi.”
In realtà, già nel primo confronto tenutosi a Pechino nel mese di gennaio tra le medesime delegazioni, si sono intravisti i primi indizi di un accordo che determinerà un nuovo equilibrio economico (e geopolitico) non solo nello scacchiere asiatico, ma anche nel resto del globo per l’impatto che avrà sul commercio mondiale e sui relativi tassi di crescita.
Tuttavia, nonostante i buoni auspici derivanti dagli elementi che filtrano dai colloqui riservatissimi delle due delegazioni, non bisogna omettere di tener conto che il fattore tempo inizia ad avere un peso decisivo in quanto mancano poco più di venti giorni alla “tregua” disposta da Donald Trump prima di dar luogo ad un aumento dei dazi con la Cina dal 10% al 25% dell’intero interscambio.
Il punto decisivo per gli americani è chiaro: la Cina deve ridurre il deficit commerciale (di circa 350 miliardi di dollari) con gli Stati Uniti attraverso l’acquisto in grosse quantità di soia, riso, gas naturale liquefatto e carne.
In realtà, la Cina, già dopo la “tregua temporanea” disposta da Donald Trump in occasione del G20 tenutosi il 1° dicembre in Argentina, ha aumentato in maniera esponenziale l’acquisto di prodotti americani.
Tuttavia, la controparte americana non siglerà accordo alcuno qualora Pechino decidesse di non aprire il mercato interno all’industria dei servizi con specifico riferimento al settore bancario, assicurativo e quello delle società di consulenza.
Da questo punto di vista, Pechino, sull’apertura degli investimenti esteri a più settori rispetto a quelli attuali, non rinuncerà al controllo verticistico dei settori chiave (banche ed energia) perché la struttura economica cinese attribuisce un ruolo decisivo al “controllo politico.”
Nonostante alcune perplessità, un indizio importante di una possibile soluzione a questo scenario complesso, è costituito dalla notizia che il prossimo 5 marzo, l’Assemblea del Popolo, discuterà in sessione plenaria una nuova legge sugli investimenti stranieri in Cina.
Vi è di più. Nella nuova legge che verrà discussa dall’Assemblea del Popolo non dovrebbe trovar posto l’obbligo che impone alla società straniere di condividere, con la forma della Joint Venture, la proprietà intellettuale soprattutto dei prodotti ad alto contenuto tecnologico.
Ovviamente, tale mossa dall’alto contenuto politico non può non essere considerata anche un tentativo diplomatico di trovare una soluzione all’accusa lanciata da Washington alla Huawei per il furto della proprietà intellettuale a danno dei giganti della tecnologia americana.
Ovviamente, la partita giocata da Washington e Pechino non è solo economica, ma soprattutto politica perché dall’accordo tra le due potenze passa l’intera sicurezza globale.
Da questo punto vista, come ha precisato Graham Allison, direttore dell’Istituto di Scienze Politiche di Harvard, le due nazioni devono stare attente alla cosiddetta “Trappola di Tucidide” ovvero al conflitto che nel V sec. a.c. ha visto contrapporsi Sparta e Atene, all’apice della loro potenza, causato proprio dal timore di Sparta di perdere il ruolo dominante nella lega del Peloponneso a seguito della crescita esponenziale proprio della diretta concorrente (Atene, appunto).
Più nello specifico, questa è la tesi di Allison, ogni qualvolta una potenza in ascesa minaccia il ruolo di quella dominante, l’esito probabile è la guerra al fine di stabilire un nuovo equilibrio.
La logica lineare, quindi, imporrebbe di pensare che il confronto tra Stati Uniti e Cina debba concludersi con una guerra, ma alla prova dei fatti un conflitto probabile non è necessariamente inevitabile.
L’obiettivo degli Stati Uniti, annunciato da Obama quasi al termine del suo mandato da Presidente (il 5 ottobre del 2015), è quello di circoscrivere il più possibile la crescita militare cinese “accerchiando economicamente Pechino” con una cintura di sicurezza costituita da undici paesi: Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore e Vietnam).
In realtà, il cosiddetto TPP (Trans Pacific Partnership) dal quale il Presidente Trump ha annunciato il ritiro nel gennaio 2017, mirava a riscrivere le regole del commercio globale, ma al contempo aveva l’obiettivo di restringere anche il ruolo della Cina nel Mar Cinese Meridionale in quanto in queste acque transita il 70% del petrolio destinato a Pechino.
Ovviamente, il ritiro non deve essere inteso come assertività di Washington a Pechino, ma come semplice conseguenza dell’impostazione di Trump di negoziare, di volta in volta, gli accordi economici con i vari partner internazionali per meglio tutelare il proprio apparato produttivo.
I vertici dello Stato cinese sono consapevoli delle intenzioni di Washington, ma forti della loro tradizione confuciana non si lasceranno trascinare in alcun confronto militare senza prima aver cercato di comporre la conflittualità attraverso una fitta rete di alleanze (di qui il ritrovato rapporto con la Russia e la crescente influenza in Africa attraverso investimenti sempre più consistenti) nonché con il soft power culturale ed economico.
Risulta decisamente complesso prevedere gli sviluppi futuri del confronto tra Stati Uniti e Cina, ma la certezza è costituita dal fatto che, nel XXI Secolo, la “guerra commerciale” può divenire il prologo di un conflitto su larga scala.
Tuttavia, se è vero che il realismo non ci consente facili profezie, nemmeno si può prescindere dallo studio della storia per comprendere il carattere predittivo di certe dinamiche.