SOCIAL HOUSING

L’emergenza abitativa trova attenzione nella legge finanziaria del 2008 in cui si definisce il concetto di “Edilizia residenziale (privata) sociale”. Per alloggio sociale s’intende l’unità immobiliare in locazione rivolta a individui e nuclei familiari che non sono in grado di accedere alla locazione di alloggi nel libero mercato. Il social housing va quindi a coprire un’area nuova della politica abitativa che non era compresa nella tradizionale edilizia residenziale pubblica e che da questa si differenzia per la flessibilità, per il target (non i più poveri, ma una fascia più ampia di persone in difficoltà) e per i soggetti coinvolti (non solo gli attori pubblici, ma anche il privato e il non profit).

Il Comitato di coordinamento europeo per il diritto alla casa (Cecodhas) ha definito il social housing come “un insieme di alloggi e servizi, di azioni e strumenti per un’utenza che non riesce a soddisfare il proprio bisogno abitativo sul mercato per ragioni economiche o per assenza di un’offerta adeguata; un insieme che favorisca la formazione di un ambiente abitativo e sociale dignitoso”. Negli ultimi anni, la questione abitativa si è trasformata dando luogo a uno scenario nuovo, variegato e complesso concernente la “domanda della casa”. Accanto a quelle parti di popolazione che classicamente beneficiano dell’edilizia sociale, si sono aggiunte parti di popolazione del ceto medio che in precedenza non erano coinvolte dal rischio abitativo. Il prospetto, quindi, si rivolge alla cosiddetta “fascia grigia”, composta di giovani coppie o famiglie con redditi medi – bassi, lavoratori a progetto, studenti fuori sede, separati o divorziati, pendolari, anziani, soggetti sottoposti a procedure di sfratto, immigrati regolarmente residenti, single in cerca di prima casa, partite IVA, etc. Il concetto di povertà tradizionalmente inteso è quindi superato e integrato da quello di vulnerabilità sociale, inteso come riduzione dell’accesso ai beni primari dovuta a situazioni d’incertezza economica anche temporanea.


Quello del social housing è un fenomeno che si sviluppa dai primi anni ’90, ormai diffuso su scala europea, soprattutto in Olanda e in Gran Bretagna. In Italia ha attecchito con difficoltà, dovuta in gran parte, alla tendenza delle famiglie italiane all’acquisto dei propri beni immobili.
L’ottanta per cento del patrimonio abitativo italiano, infatti, è di proprietà e solo il 20% vive in affitto. Le difficoltà economiche e finanziare degli ultimi anni hanno tuttavia interrotto questo trend poiché molte famiglie si sono trovate nell’ambigua situazione di non essere né troppo ricche perché accedano apertamente al libero mercato, né troppo disagiate per rientrare nei parametri dell’Edilizia residenziale pubblica. 

L’articolo 11 del DL 112/08, il DPCM 16/7/2009 e il DPCM 10/7/2012 (pubblicato nella Gazz. Uff. il 19/2/2013) introducono i contenuti fondamentali del Piano nazionale di edilizia abitativa, innovando in modo significativo l’approccio al finanziamento dell’edilizia residenziale sociale. Nell’ambito delle linee di intervento individuate dal Piano (art. 1 c. 1 del DPCM 16/7/2009), infatti, viene prevista la possibilità di utilizzare i fondi immobiliari chiusi come strumento per finanziare la realizzazione di alloggi sociali, come definiti dal DM 22 aprile 2008. Tali fondi immobiliari potranno essere costituiti mediante la partecipazione di soggetti pubblici e privati e potranno articolarsi in un “Sistema Integrato di Fondi” (“SIF”), costituito da un “fondo nazionale” e da una serie di “fondi locali”. In altri termini, gli interventi di edilizia privata sociale potranno essere implementati e realizzati sul territorio mediante lo sviluppo di fondi locali, a loro volta partecipati dal fondo nazionale. Non si tratta di un fondo perduto, ma d’investimenti della durata di trenta anni con un rendimento pari al tasso d’inflazione (tra il 2% e il 3%). Il social housing riguarda perciò, esclusivamente case in affitto permanente (e non in acquisto).


L’affitto dell’immobile, detto calmierato, viene inoltre, sottoposto a un regime di controllo dei prezzi prevedendo un canone che non superi il 25-30% dello stipendio. 
Il tutto, nella garanzia di un livello di abitabilità dignitoso, adeguato e sostenibile per il potere d’acquisto medio delle famiglie italiane.

La durata dei contratti è fissata attraverso canoni quinquennali, che rispettino comunque, i tre principi fondamentali di questa nuova politica abitativa: – la progettazione di edifici di qualità, – la garanzia di sostenibilità ambientale ed efficienza energetica, e infine, – il livello contenuto dei prezzi.

I complessi residenziali, inoltre, sono gestiti da cooperative e società specializzate anche nella gestione “sociale” e quindi, intermediari affidabili e attenti a esigenze differenti da quelli del mero profitto. L’impegno “social” del progetto riguarda soprattutto la condivisione di spazi comuni finalizzati all’ottimizzazione dei costi per quanto riguarda locali come per esempio, lavanderia, sale studio o giardini. E non solo: “Social” è anche l’utilizzo di materiali riciclabili, alte prestazioni energetiche, recupero dell’acqua piovana per uso sanitario e isolamento termico. Questa è quindi una nuova forma di convivenza che, come detto, fa leva sui principi di qualità, rispetto per l’ambiente e integrazione sociale.