L’Italia e le politiche della crescita.

Giugno sta restituendo alla politica italiana un clima estremamente caldo non solo dal punto di vista climatico ma soprattutto a causa del confronto decisamente infuocato, sul piano sostanziale, tra i partner di governo sulle scelte da seguire in materia economica nel tentativo di assecondare un ciclo virtuoso di crescita.

La lettera che la Commissione Europea ha inviato alla fine del mese di maggio al Governo Italiano contiene un giudizio negativo sulle politiche di riequilibrio dell’economia italiana arrivando ad affermare che “è confermato che l’Italia non ha fatto progressi sufficienti per rispettare il criterio del debito nel 2018”. Se portassimo alle estreme conseguenze il contenuto di tale lettera è possibile intravedere l’intenzione di preparare un rapporto sul debito che costituirebbe il primo passo di una procedura d’infrazione per deficit eccessivo nei confronti dell’Italia.

Nonostante le guasconesche prese di posizione di parte della politica italiana, la lettera pone al Paese la questione cruciale di come uscire dalla difficoltà di un debito da riequilibrare rispetto al prodotto interno lordo e che si porta dietro in modo storico e strutturale.

La risposta alla lettera, firmata dai Commissari Dombrovskis e Moscovici, è stata redatta dal premier Conte ed è stata rivolta, in buona sostanza, a creare le condizioni per aprire un confronto sulle regole dell’Unione, rivedendo i parametri sui quali basare i successivi giudizi, ed ha, inoltre, anche confermato, nonostante tutto, l’impegno dell’Italia a rispettare gli attuali parametri europei (il famoso 3% di deficit da non superare nel rapporto debito/Pil).

Il panorama dell’economia nazionale, secondo le più accreditate ed accorsate agenzie di analisi, riflette l’immagine di un’Italia ferma ed immobile. L’economia italiana è prevista sostanzialmente in stagnazione nel 2019 e in esiguo miglioramento nel 2020. Rispetto alle previsioni formulate ad ottobre 2018, la crescita per quest’anno è rivista nettamente al ribasso: tre quarti da minore domanda interna, un quarto da quella estera.

La Legge di Bilancio, varata a fine 2018, si poggiava su alcuni pilastri ritenuti indifferibili, il Reddito di Cittadinanza e Quota 100, i cui effetti, una volta portati entrambi a regime avrebbero dovuto conferire un effetto positivo alla crescita economica del Paese. Al momento le due misure, previste nel cosiddetto “Contratto di Governo”, non hanno ancora sortito gli effetti annunciati e sperati. Altre parole d’ordine si annunciano all’orizzonte come la flat tax e il salario minimo che dovrebbero assolvere al tentativo di inoculare nel tessuto produttivo e lavorativo germi positivi per la crescita. Purtroppo in fondo al tunnel si intravede la luce funerea di una scelta che il Governo si troverà tra i piedi intrecciata all’esigenza di dover aumentare l’IVA (come previsto dalle clausole), mortificando però la domanda interna, necessaria, invece, quest’ultima per riavviare il mercato delle famiglie e delle imprese o non aumentarla, facendo di conseguenza salire il deficit e aggravando ancora di più il giudizio della Commissione Europea.

Insomma i prossimi mesi saranno caratterizzati da queste tematiche con un’apparente contrapposizione di vedute tra i due azionisti dell’attuale Governo (M5S e Lega). Le posizioni che si annunciano roboanti ed epiche, in cui ognuno degli azionisti di governo costruisce una propria linea Maginot sulle singole proposte/bandiera, sono veramente tali da non nascondere l’intento di ridurre la tradizionale e democratica dialettica politica maggioranza/opposizione all’interno dello stesso Governo, marginalizzando in questo modo le forze che, allo stato, sono realmente ed effettivamente all’opposizione?

In fondo la partita vera, per la politica e per il sistema produttivo italiano, si gioca sul versante dell’aumento dell’occupazione e su quello della riduzione del carico fiscale, per le famiglie e per i lavoratori, in particolare, già pesantemente colpiti, questi ultimi, dal “job act”. L’Istat per il 2019 prevede che l’occupazione rimanga sui livelli dell’anno precedente (+0,1%) mentre si registrerebbe un lieve aumento del tasso di disoccupazione (10,8%). Quindi è del tutto evidente quale sia il livello di urgenza nel dover affrontare tale delicata questione imprimendo una correzione di rotta alle politiche di governo.

Il salario minimo è sicuramente un tentativo importante per sostenere il reddito dei lavoratori, eroso e aggredito dalla crisi epocale partita dagli USA fin dal 2008.  Ma è del tutto evidente come esso non potrà diventare un costo aggiuntivo per le imprese, che già scontano, a loro volta, problematiche negative di ogni tipo ingessandole e rendendo estremamente faticosa la loro azione destinata a reggere il peso della concorrenza, soprattutto internazionale. E allora, condividendo l’impostazione di Claudio Durigon, sottosegretario al Lavoro, spiegata in una recente intervista, la strada da seguire è quella di far andare il salario minimo di pari passo al taglio del cuneo fiscale sulle buste paga dei lavoratori. “In questo modo – sostiene il sottosegretario – è possibile far salire la busta paga del lavoratore senza aumentare i costi delle imprese”.

E’ di tutta evidenza come l’Italia possa rischiare di collocarsi, nei prossimi mesi, sul crinale di una crescita abortita fin dall’origine, tenuto conto la politica, nel proprio esclusivo interesse, è tentata di mettere in campo soluzioni deboli, astruse, difficili e poco comprensibili che non mettono il Paese nelle giuste condizioni di essere competitivo.

La politica ha ora il compito arduo nei prossimi giorni non solo di evitare la procedura di infrazione facendo scelte di buon senso, magari con l’aiuto gradito dell’intervento della BCE a trazione Draghi, e di riposizionare l’Italia su un sentiero di crescita stabile. Cosa non semplice ma è l’unica strada da seguire!