Lavoratori autonomi e Pmi pagano più tasse delle imprese medio-grandi

Piccole imprese e lavoratori autonomi pagano, in proporzione, più tasse delle medie e grandi imprese. I conti sono presto fatti: in materia di imposte e tasse, nel 2018 i lavoratori autonomi e le piccole imprese hanno versato al fisco 42,3 miliardi di euro, pari al 53% degli oltre 80 miliardi di imposte versate da tutto il sistema produttivo. Tutte le altre attività, prevalentemente medie e grandi imprese, hanno invece corrisposto 37,9 miliardi, ovvero il 47% del totale. Insomma, i piccoli – ossia quelle attività con meno di 5,1 milioni di euro – hanno versato 4,4 miliardi di tasse in più rispetto a tutti gli altri. A denunciarlo è la CGIA di Mestre, con un’analisi che prende in considerazione le principali imposte, tra cui Irpef, Ires, Irap, Imu-Tasi. Per grandi linee, cioè, si tratta di circa il 90% del contributo al gettito delle imprese.

Nonostante la dimensione aziendale delle piccole imprese presenti in Italia sia molto contenuta, il contributo fiscale ed economico reso al Paese è rilevantissimo, dunque.  “Come dimostrano i dati di questa elaborazione – afferma il coordinatore dell’Ufficio studi Paolo Zabeo – l’apporto fiscale delle medie e grandi imprese è molto inferiore alle attese. Tale risultato è ascrivibile sia al loro esiguo numero sia all’elevata possibilità che queste realtà produttive hanno di eludere il fisco. Come ha segnalato recentemente il Fondo Monetario Internazionale, il mancato pagamento delle imposte da parte delle grandi multinazionali del web, ad esempio, sottrae ogni anno all’erario italiano circa 20 miliardi di euro”.

L’indagine della CGIA si concentra anche sul peso delle Pmi e delle Grandi imprese sul totale delle aziende presenti in Italia (con dati Eurostat del 2016 che fanno riferimento alle imprese del settore privato escluso agricoltura, servizi finanziari/assicurativi, istruzione, sanità, attività sportive, di intrattenimento e altri servizi alla persona). Se oggi si contano un numero molto ristretto di grandi imprese, la CGIA ricorda che fino alla prima metà degli anni ’80 il loro ruolo nell’economia nazionale era di primissimo piano. A quel tempo, l’Italia era tra i leader mondiali nella chimica, nella plastica, nella gomma, nella siderurgia, nell’alluminio, nell’informatica e nella farmaceutica, grazie al ruolo e al peso di molte grandi imprese pubbliche e private (Montedison, Eni, Montefibre, Pirelli, Italsider, Alumix, Olivetti, Angelini, etc.). A distanza di quasi 40 anni, invece, lo Stivale ha perso terreno e leadership in quasi tutti questi settori. E ciò è avvenuto a seguito di una selezione naturale compiuta dal mercato. Ebbene, il peso economico delle grandi imprese italiane (quelle con più di 250 addetti) è ormai ridotto a dimensioni molto contenute. Rispetto a tutti e quattro gli indicatori presi in esame – numero di imprese, fatturato, valore aggiunto, numero occupati –  le Pmi (meno di 250 addetti) presentano delle performance nettamente superiori a quelle delle grandi imprese. In termini di unità, ad esempio, il numero di queste ultime è pari a poco più di 3.200 (0,1% del totale delle imprese italiane). Il fatturato dei grandi player, invece, incide sul dato complessivo per il 31,9%. Se il fatturato totale ammonta a 2.855 miliardi di euro, la parte riconducibile alle grandi aziende è di 911 miliardi. Il valore aggiunto, sempre delle big company, è pari al 32,7% del totale. Se il dato nazionale in termini assoluti è di 702 miliardi, la quota in capo alle imprese con più di 250 addetti è di 230 miliardi. Anche in termini di occupati, infine, il risultato del confronto con le Pmi è appannaggio di queste ultime. Su una platea di occupati nel settore privato di oltre 14,5 milioni di addetti, solo 3,1 milioni (pari al 21,4% del totale) è alle dipendenze di una grande impresa.