“Il 20% del tempo che passiamo al lavoro è sprecato, dobbiamo lavorare meno e più intensamente” ( Brunello Cucinelli, “re del cashmere” e imprenditore illuminato) .
Il nuovo presidente dell’INPS, Pasquale Tridico, sostiene da tempo che una riduzione dell’orario di lavoro, a parità di stipendio, sia una leva per far aumentare l’occupazione e per redistribuire la ricchezza. Secondo il custode delle pensioni italiane, gli incrementi di produttività andrebbero compensati con un aumento della retribuzione o con maggiore tempo libero.
Memorabile l’idea – o meglio la previsione – di Winston Churchill, che nel 1953, disse che si sarebbe arrivati a lavorare 4 giorni a settimana grazie ai progressi tecnologici.
Prima di lui il più influente tra gli economisti del XX secolo Keynes, nel 1935, ipotizzò un mondo dove tutti avrebbero potuto godere del tempo libero per vivere la propria vita, lavorando solamente 15 ore alla settimana. Secondo Keynes i suoi nipoti avrebbero avuto molte più possibilità economiche e, nel 2030, la più grande sfida che avrebbe avuto l’umanità sarebbe stata quella di occupare il proprio tempo libero.
Un altro economista e filosofo contemporaneo di Keynes, John Stuart Mill, padre del liberismo classico, affermò che il miglior uso della ricchezza economica era il tempo libero. Secondo Mill la tecnologia avrebbe dovuto essere usata per ridurre la settimana lavorativa il più possibile e liberare il tempo per altre attività più adatte all’essere umano e, più in generale, per migliorare “l’arte di vivere”.
Oggi, sono diverse le aziende che hanno dimostrato un certo interesse per la riduzione dell’orario di lavoro a parità di stipendio. Questo perché vari esperimenti hanno dimostrato che questa soluzione è in grado non solo di migliorare la salute e la felicità dei dipendenti, ma anche di far crescere l’azienda, perché il lavoro sarebbe svolto in maniera più intelligente e produttiva.
Il progetto pilota della settimana corta è stato condotto lo scorso anno dal Perpetual Guardian, una società neozelandese che si occupa di pianificazione patrimoniale, ottenendo risultati sorprendenti. Secondo l’analisi condotta dagli accademici dell’Università di Auckland, che hanno contribuito alla progettazione dello studio, i 240 dipendenti sono usciti dall’esperienza decisamente più motivati e felici. Il 78% di loro, infatti, ha dichiarato di essere riuscito a gestire con successo l’equilibrio vita privata/lavoro. Un dato cresciuto del 24% rispetto al periodo precedente, quando i dipendenti lavoravano full time. Lo stress, inoltre, è sceso del 7% e la soddisfazione complessiva della propria vita aumentata del 5%. Visti i risultati così incoraggianti, a novembre dello stesso anno, la Perpetual Guardian ha deciso di rendere permanenti le modifiche all’orario lavorativo.
Quest’anno l’esperimento è stato messo in atto dall’azienda Microsoft Giappone che nel mese di agosto ha provato sui suoi lavoratori la settimana corta, a parità di stipendio, nell’ambito della “Work Life Choice Challenge”. Incredibilmente, nonostante il giorno lavorativo in meno, analizzando i dati dell’esperimento, Microsoft ha notato come durante quel periodo la produttività, misurata in termini di vendite per ogni dipendente, è aumentata del 39,9% rispetto al mese di agosto del 2018. Ma i vantaggi della settimana corta non hanno riguardato soltanto la produttività: la società ha certificato anche un calo dei costi aziendali fissi: le spese per l’energia elettrica sono scese del 23,1%, e anche il consumo di carta utilizzata in sede per fax, stampe e il resto si è più che dimezzato. A tutto questo si sono aggiunti i feedback fortemente positivi degli stessi dipendenti: il 92,1% di questi che ha dichiarato di apprezzare la settimana lavorativa di quattro giorni. Tanto è vero che secondo una ricerca del British Safety Council, nel periodo 2017- 2018, il 57% di tutti i giorni di malattia dei lavoratori era dovuto a stress, ansia o depressione legati al lavoro (il 44% era causato dalla sola pressione del carico di lavoro). Anche per questo l’ipotesi della settimana lavorativa da 4 giorni, secondo l’ente inglese, aiuterebbe a ricollocare il lavoro nella giusta prospettiva e evitare il burnout, l’esaurimento e lo stress, che sono costosi sia per la salute dei lavoratori che per l’economia. Sembra un paradosso che, se da un lato le ore lavorate diminuiscono, dall’altro aumenta l’efficienza.
La ragione sta nel fatto che, secondo alcuni studi, le ore effettivamente lavorate in un giorno sono circa 3, rispetto alle 8 che si trascorrono fisicamente sul luogo di lavoro. Questo perché molto del tempo che passiamo in ufficio in realtà lo occupiamo con attività diverse: dalla consultazione dei social media alle pause, dai colloqui informali con i colleghi agli scambi di messaggi privati.
Nel nostro Paese, sebbene le aziende ricorrano sempre più spesso all’utilizzo del termine flessibilità per calibrare l’orario di lavoro dei dipendenti, il lavoro flessibile finisce spesso con l’essere utilizzato a svantaggio dei lavoratori.
Esso, purtroppo, assume sempre più spesso la connotazione di lavoro precario, con meno tutele e meno stabilità di chi ha un impiego fisso, e il lavoro part time rappresenta sempre più spesso l’unica possibilità per evitare di rimanere senza un’occupazione.
Inoltre la natura industriale italiana al momento è difficilmente compatibile con una modifica per legge della settimana lavorativa. Le realtà produttive sono ancora legate a un sistema tradizionale di relazioni industriali, dove il sindacato e la contrattazione collettiva hanno un ruolo centrale.
Molte aziende, dunque a oggi non sono in grado di garantire un giorno in meno di lavoro a parità di salari. È fondamentale quindi procedere con ordine, incentivando le aziende più innovative a svolgere il ruolo di apripista, ridistribuendo i loro incrementi di produttività verso il benessere dei lavoratori. Di fianco i sindacati devono essere di supporto a tale iniziativa.
Lavorare meno, per farla breve, non dovrebbe essere un lusso, ma un tassello fondamentale del progresso umano.