Dall’autoritratto come sopravvivenza al racconto collettivo dell’emarginazione.
Tutto comincia in silenzio. In una casa americana degli anni Sessanta, una ragazza osserva il mondo senza parlare. Si chiama Nan Goldin e, prima ancora di conoscere l’arte, conosce la perdita. Sua sorella Barbara, adolescente ribelle e fragile, si toglie la vita a diciotto anni. Quel trauma lascia un vuoto incandescente, una frattura che Goldin porterà con sé per sempre. E sarà proprio per sopravvivere a quel vuoto che prenderà in mano una macchina fotografica. Non per passione. Per necessità. La sua vita, da quel momento, diventa il suo soggetto. Niente scenografie, niente filtri. Solo quello che c’è: amici, amanti, corpi in trasformazione, intimità scomode, fragilità irrimediabili. Le immagini non sono costruite. Sono vissute. Goldin non fotografa da osservatrice, ma da partecipe. Il suo sguardo è immerso, coinvolto, crudo. “Non fotografavo per essere un’artista. Fotografavo per sopravvivere”, dirà. E lo si capisce in ogni scatto.Negli anni Settanta si trasferisce a Boston, poi a New York. Qui si immerge in una comunità marginale, dove drag queen, tossicodipendenti e outsider diventano la sua nuova famiglia. La sua macchina fotografica li segue ovunque, nei momenti di tenerezza come in quelli di abbandono.

Le immagini sono spesso scure, mosse, sbilanciate. Ma è proprio questa imperfezione a renderle autentiche. La verità, per Goldin, vale più della bellezza.Nel 1986 presenta The Ballad of Sexual Dependency: uno slideshow di oltre 700 fotografie, accompagnato da una colonna sonora intensa e malinconica. È un’opera che non chiede permesso. Investe lo spettatore con un flusso visivo di vita e morte, amore e autodistruzione, piacere e perdita. Non c’è giudizio, solo una domanda sospesa: quanto siamo disposti a vedere? Ma il suo percorso non si ferma alla memoria. Anni dopo, Goldin affronta un nuovo nemico: l’OxyContin, antidolorifico che le causa una dipendenza devastante. Ne esce, e decide di non restare in silenzio. Fonda il gruppo P.A.I.N. e denuncia la famiglia Sackler, produttrice del farmaco e finanziatrice di molti musei. Entra nei templi dell’arte e li sfida dall’interno, con proteste silenziose e immagini che non possono più essere ignorate.
Oggi, in un mondo dominato dall’immagine levigata, dal racconto patinato, l’opera di Nan Goldin continua a disturbare. Perché non abbellisce. Non consola. Mostra. E pretende di essere guardata. Con occhi aperti. Anche quando fa male. Soprattutto quando fa male.