I referendum dovrebbero essere neutrali, ma spesso diventano propaganda emotiva che orienta il voto, compromettendo la consapevolezza del cittadino.
I referendum abrogativi, per legge, devono essere formulati in modo neutro e tecnico, proprio per garantire l’imparzialità del quesito e lasciare che sia il cittadino, liberamente e consapevolmente, a decidere. La domanda infatti chiede se si vuole abrogare una specifica norma di legge, non se si è a favore o contro un principio astratto. Questo equilibrio è fondamentale per mantenere la correttezza democratica del processo.
Eppure, nella pratica politica e mediatica, questo principio viene spesso aggirato. Il quesito giuridico diventa presto un messaggio emozionale. La comunicazione dei promotori si trasforma in slogan come: “Vuoi eliminare il lavoro precario?”, “Vuoi diminuire le morti sul lavoro?”, “Vuoi più tutele per i lavoratori?”. Formulazioni retoriche, che non pongono un vero interrogativo ma suggeriscono direttamente la risposta, solleticando l’istinto piuttosto che la riflessione.
Questa trasformazione è il cuore della propaganda moderna: convertire una scelta tecnica in un atto di appartenenza emotiva. E chi mai risponderebbe “no” a domande così formulate? Nessuno, ed è proprio questo il punto. Non si sta più decidendo se una norma è efficace o meno, se produce effetti positivi o controproducenti: si sta rispondendo a un appello morale, costruito per orientare il voto in una sola direzione.

Questa pratica mina l’integrità del referendum come strumento democratico. Il cittadino non è più chiamato a esprimere un’opinione consapevole su una norma, ma a prendere posizione su un valore già caricato emotivamente. La differenza tra informazione e propaganda sta tutta qui: la prima illumina i fatti, la seconda li veste per orientare il pensiero.
In una democrazia sana, il dibattito dovrebbe essere aperto, plurale e basato su contenuti comprensibili ma non manipolativi. La comunicazione politica ha il diritto di essere persuasiva, ma ha anche il dovere di rispettare la libertà di giudizio del cittadino. Quando questo equilibrio si rompe, la partecipazione diventa automatismo, e il voto perde il suo significato più profondo: essere una scelta ragionata, non una reazione emotiva.
In conclusione, il referendum sul Jobs Act non è solo una questione di norme da abrogare o conservare. È anche, e forse soprattutto, un banco di prova per la nostra capacità di riconoscere la differenza tra comunicazione e propaganda, tra informazione e induzione. E per scegliere, davvero, con la propria testa.