A RISCHIO IL SETTORE DELLA PELLETTERIA IN ITALIA

Il settore della pelletteria in Italia sta vivendo attualmente un periodo di transizione. Se da un lato i marchi di lusso continuano a mantenere una posizione dominante nel mercato globale, dall’altro le difficoltà economiche , l’aumento dei costi delle materie prime e la concorrenza internazionale potrebbero portare una crescita più lenta o addirittura a un calo nelle vendite di alcuni segmenti del mercato. Sin da sempre l’Italia è stata considerata un punto di riferimento mondiale per la pelletteria di alta qualità, con marchi come Prada, Salvatore Ferragamo, Bulgari, Gucci che comunque continuano a dominare il mercato internazionale. Ciononostante sin dai primi mesi del 2024 si è registrato un calo a doppia cifra sia delle esportazioni che del fatturato. Secondo un’indagine da parte di Co.N.A.P.I. Nazionale, un quarto delle aziende ha perso il 20% del fatturato.

Tra i vari fattori che stanno influenzando negativamente l’industria vi è l’aumento dei costi delle materie prime. Il costo della pelle e dei materiali utilizzati nella produzione di pelletteria di alta qualità continua a salire, in parte a causa di difficoltà nella filiera produttiva e aumenti legati alle risorse naturali. Anche l’inflazione che ha colpito le economie globali sta influenzando negativamente i margini di profitto delle aziende, che devono affrontare un aumento dei costi di produzione. Questa situazione può portare ad aumento dei prezzi finali per i consumatori , riducendo la domanda di articoli di pelletteria di fascia alta. Altra problematica non indifferente riguarda l’abbassamento della domanda nei mercati maturi. Sebbene la pelletteria di lusso continua a registrare performance robuste, in alcune aree geografiche mature (come l’Europa e gli Stati Uniti per intenderci) , le domande si stanno riducendo sempre di più. I consumatori sono diventati più cauti a causa delle incertezze economiche, dell’inflazione e dell’aumento del costo della vita, fattori che influiscono negativamente sulle vendite di beni di lusso non essenziali come borse e accessori di pelle.

In uno scenario come questo, la concorrenza internazionale e la produzione Low-Cost è sempre più alta: i produttori di pelletteria in paesi come Cina e Turchia stanno guadagnando quote di mercato, offrendo prodotti di buona qualità a prezzi più competitivi. Questo rappresenta una minaccia crescente per i produttori italiani di pelletteria, che devono competere con una crescente pressione sui prezzi, pur mantenendo la loro reputazione per la qualità artigianale. Se i produttori italiani non riescono a rinnovarsi o adattarsi alle nuove esigenze del mercato il rischio è di perdere il terreno rispetto ai concorrenti internazionali.
Molte aziende di pelletteria italiane stanno investendo gran parte del loro lavoro nella digitalizzazione e , se buona parte delle aziende ottiene buone entrate, una parte non è ancora riuscita ad adattarsi all’e-commerce e alle nuove modalità di acquisto.
Dunque il settore della pelletteria in Italia sta attraversando un momento particolare ed è necessario un cambiamento da parte dei produttori sull’innovazione, sostenibilità e digitalizzazione.

IL NOTO BRAND PINKO A RISCHIO CHIUSURA? PREVISTA UDIENZA A NOVEMBRE

Tiene banco e sta scuotendo l’ambiente della moda la notizia che vede coinvolto Pinko, noto marchio italiano di moda fondato nel 1986 da Pietro Negra e Cristina Rubini e differenziatosi per aver portato un abbigliamento ribelle ed elegante, è a rischio liquidità. A lanciare per prima l’allarme e ad accendere i riflettori sulla vicenda, è stato il quotidiano dell’ economia IL SOLE 24ORE dalle cui colonne si legge della difficoltà e della difficile situazione in cui versa l’azienda trascinandosi molti dipendenti che potrebbero trovarsi senza lavoro. A controllare l’azienda di abbigliamento con sede a Fidenza in provincia Parma è Cris Conf che sta attraversando giorni non semplici in attesa del verdetto finale. E’ prevista il 14 novembre l’udienza a Parma per avviare una trattativa con i creditori sulla base della nuova legge fallimentare: ciò che è stato richiesto sono le applicazioni delle misure protettive al patrimonio. Come rilasciato sempre da Sole24 Ore , in caso di esito positivo, Pinko avrà un anno di tempo per concordare con i creditori e scongiurare piani di risanamento draconiani o un concordato preventivo.
Eppure non ci aspettavamo che una grande azienda come quella di Pinko che conta oltre 550 dipendenti, 250 store di cui solo 95 in Cina e che in particolare nel 2021 ha fatturato 240 milioni di euro grazie anche all’e-commerce, potesse ridursi ad una crisi di liquidità. Ma questo purtroppo rientra nel concetto di crisi che il mondo della moda continua a vivere: moltissime generazioni preferiscono spendere poco ma acquistare un numero maggiore di capi d’abbigliamento anche se questi sono costituiti da una qualità decisamente più bassa rispetto a capi firmati.

Nel 2021 Pinko ha sfondato grazie allo stile elegante e sofisticato delle borse adatte per qualsiasi occasione: chiunque in strada, che indossasse un abbigliamento casual o più sofisticato, portava attorno alla propria spalla l’amatissima borsa . A far impazzire ancora di più la clientela, oltre che le varie proposte di colori, sono state borchie e paillettes , provocando entrate sempre più alte da parte di ogni store . Pinko ha già attraversato già delle fasi di crisi, come quella di dieci anni fa quando annunciò un taglio di 40 posti di lavoro. Oltre 220 milioni, sempre secondo il Sole 24 Ore, l’ultimo bilancio disponibile risalente al 2002.
La crisi ha colpito anche Pinko, ma del resto non c’è da stupirsi, visto che la chiusura dei negozi fisici, il calo delle vendite e le interruzioni nella catena di approvvigionamento hanno portato a una crisi significativa. Le aziende hanno dovuto adattarsi rapidamente, spostando l’attenzione verso l’e-commerce e le vendite online. Gli esperti parlano di moda futuristica che ormai sta incorporando tessuti intelligenti, con materiali che possono cambiare colore, consistenza e forma in risposta a stimoli esterni come la temperatura, la luce o l’umidità. Questi tessuti permettono agli stilisti di creare abiti multifunzionali che si adattano alle esigenze di chi li indossa, con la speranza che il settore della moda possa uscire definitivamente da questo momento critico dovuto a molti cambiamenti.

COMMERCIO IN CRISI


CONFCOMMERCIO E CONFESERCENTI DI FRONTE A NUMERI DI CHIUSURE DI NEGOZI SEMPRE PIU´ IN AUMENTO.

LE CAUSE: DESERTIFICAZIONE E VENDITE ONLINE

Secondo un’analisi condotta dal Centro Studi Tagliacarne, il bilancio di una crisi nel commercio è pesante tenendo conto del periodo tra il 2012 e il 2023.

Infatti l’attività commerciale ha perso oltre 111mila negozi al dettaglio di cui 31mila durante la recente crisi. Difficile anche la situazione del commercio ambulante che vede la cessazione di 24mila attività.

Due fattori che contribuiscono alla desertificazione dei centri urbani e alla riduzione del calo dei servizi ai cittadini. Parallelamente si registra l’aumento di 9.800 attività di alloggio e ristorazione, settore che è in evoluzione dal punto di vista dell’imprenditorialità.

Ma in effetti se consideriamo il quadro italiano emerge che tra commercio, alloggio e ristorazione si registra ancora un meno 8,4% delle attività italiane mentre quelle straniere vedono un +30%.

Una dinamica analoga si registra sul fronte dell’occupazione perché la metà degli addetti nell’intera economia, oltre 242mila occupati, impiegati in questi settori sono stranieri.

Questi i principali risultati dell’analisi «Demografia d’impresa nelle città italiane», realizzata dall’Ufficio Studi di Confcommercio in collaborazione con il Centro Studi Guglielmo Tagliacarne.

Le chiusure si concentrano soprattutto nei centri storici.

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Secondo l’analisi

nei 120 comuni più grandi negli ultimi 10 anni sono definitivamente spariti oltre 30mila negozi al dettaglio e il commercio ambulante.

Così la densità commerciale è calata da 12,9 negozi a 10,9 negozi per mille abitanti. Un calo del 15,3%. A chiudere sono soprattutto i distributori di carburante, librerie e negozi di giocattoli, ferramenta e arredamento, abbigliamento e calzature.

Le sole attività in controtendenza sono le farmacie e para farmacie, i negozi di telefonia e computer, la ristorazione e l’ospitalità sull’onda del successo di B&B e degli affitti brevi.

Un fenomeno che colpisce indistintamente sia il Nord che il Sud Italia. La crescita dell’e-commerce è la maggiore responsabile della riduzione del numero di negozi ma resta comunque un’opportunità per il commercio “fisico” tradizionale.

Secondo Confcommercio, per evitare gli effetti più gravi del fenomeno della desertificazione nel cuore delle città il commercio di prossimità deve puntare su efficienza e produttività, anche attraverso l’innovazione e la ridefinizione dell’offerta.

Resta comunque fondamentale, l’utilizzo anche di un canale online ben funzionante.

Complessivamente in Italia sono fallite e hanno chiuso 732.067 aziende e la chiusura dipende principalmente anche dalla vendita di prodotti o servizi online.

Infatti, il boom dell´e – commerce non ha certamente aiutato le botteghe tradizionali unitamente all’effetto dato dalla desertificazione dei centri storici sempre meno popolati.

Per il Presidente di Co.N.A.P.I. Nazionale, il dottor Basilio Minichiello, il momento poco favorevole per le piccole attività commerciali, sottolinea come esse vanno supportate ed infatti la Co.N.A.P.I. Nazionale, ha predisposto un piano per aiutare tale settore detto commercio di vicinanza, utilizzando le risorse degli Enti Bilaterali a favore di iniziative messe in atto da piccole attività commerciali segno evidente che si ha la volontà a far sopravvivere, in un momento di piena crisi, molti commercianti che si vedono costretti ad abbassare la saracinesca.