DISOCCUPAZIONE AI MINIMI, IL 25% È NEET


NEET: giovani che non studiano, non lavorano e non fanno formazione. In Italia sono il 25%. Serve motivazione e opportunità per coinvolgerli.

La giornata di celebrazione del lavoro e dei lavoratori, sembra aver perso molto del suo significato originario. Le piazze si riempiono ancora, ma non sempre di entusiasmo e consapevolezza. Sempre più spesso a emergere sono immagini di tensione, disordine pubblico, contestazioni e polemiche che oscurano i passi avanti che, nonostante tutto, il mondo del lavoro ha compiuto.

Un dato su tutti merita attenzione: per il terzo anno consecutivo, l’occupazione ha toccato livelli record. La disoccupazione, che solo qualche anno fa sfiorava il 10%, è oggi scesa al 6%. A questo si aggiunge l’aumento dei contratti a tempo indeterminato, un segnale che va letto con realismo e ottimismo: il lavoro c’è, anche se distribuito in modo diseguale e non privo di fragilità settoriali.

Eppure, accanto a questi segnali positivi, c’è un dato che pesa come un macigno: il 25% dei giovani italiani disoccupati è NEET — non studia, non lavora, e nemmeno cerca un’occupazione. Una generazione intera che sembra essersi fermata, come intrappolata in un presente senza prospettive. Qui il problema non è solo economico. È sociale, culturale, esistenziale.

Il clima di sfiducia che avvolge tanti giovani nasce da una crisi più profonda: mancano punti di riferimento, mancano stimoli, manca un progetto. La famiglia e la scuola spesso non riescono più a fornire modelli convincenti o strumenti adeguati per affrontare le sfide del futuro. E anche la società civile, disorientata, non offre alternative credibili o ideali forti in cui riconoscersi.

Questa frattura profonda si manifesta anche simbolicamente nelle proteste del Primo Maggio: manifestazioni che dovrebbero unire si trasformano in sfoghi di rabbia, spesso incomprensibili a chi guarda dall’esterno. Ma dietro quella rabbia c’è un malessere che non possiamo ignorare, e che va capito più che condannato.

Forse, allora, la domanda non è solo “che resta della festa del Primo Maggio?”, ma anche “che senso vogliamo darle oggi?”. Se non riusciremo a riconnettere i giovani al mondo del lavoro e alla società, se non sapremo offrire loro un futuro che sembri degno di essere vissuto, nessuna percentuale positiva potrà colmare quel vuoto.

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