Lo sciopero generale del 12 dicembre colpisce soprattutto le piccole imprese: chiusure e perdite senza tutele.
Il 12 dicembre è stato proclamato uno sciopero generale da parte del segretario della CGIL Maurizio Landini. Un appuntamento che, ancora una volta, si presenta come una manifestazione di contrapposizione politica più che come un reale strumento di dialogo. Nel mirino, il Governo Meloni e la manovra economica.
Ma mentre la protesta si prepara a sfilare nelle piazze, esiste un’Italia che non può permettersi di fermarsi: quella delle botteghe artigiane, degli studi professionali, delle microimprese familiari e delle piccole aziende che rappresentano l’ossatura produttiva del Paese.
Per queste realtà, lo sciopero non è un tema di bandiere, ma di sopravvivenza.
Chi lavora con partita IVA o guida un’impresa artigiana o commerciale non dispone di ammortizzatori per le giornate perse. Se la serranda resta chiusa, non entra fatturato. Se non entra fatturato, non si coprono stipendi, fornitori, mutui, contributi. È un’economia reale, concreta, quotidiana, lontana dalle coreografie ideologiche.

La distanza culturale tra chi guida i cortei e chi solleva le saracinesche all’alba è evidente. Lo schema di riferimento di certi sindacalismi resta quello della grande fabbrica del secolo scorso, mentre oggi il tessuto produttivo italiano è fatto, per oltre il 90%, di piccole e piccolissime imprese.Il Paese produttivo non contesta il diritto allo sciopero. Ma chiede che lo si eserciti con responsabilità e con uno sguardo rivolto al presente, non al passato.
Le priorità per chi produce e rischia sono altre.
Uno sciopero generale, così com’è strutturato, finisce per creare un danno proprio a chi dovrebbe essere sostenuto: il lavoro vivo, quotidiano, quello che genera valore e non slogan.
Se si vuole difendere il lavoro, bisogna ascoltare chi il lavoro lo crea.
L’Italia delle botteghe non alza la voce: apre le porte, accende le luci del laboratorio, forma i giovani, mantiene vive tradizioni e professionalità. È un patrimonio sociale prima ancora che economico.
Per questo, oggi più che mai, serve una politica capace di dialogare con chi produce e non soltanto con chi protesta.















