RESILIENZA PROFESSIONALE: UNA COMPETENZA DA “ALLENARE”


Si parla molto di resilienza, una competenza che è spesso data per scontata

Nel mondo del lavoro contemporaneo e non solo, la parola “resilienza” è diventata un po’ mantra. Ma cosa significa davvero essere resilienti in ambito professionale? E perché questa competenza è oggi considerata strategica per imprese, lavoratori e consulenti del lavoro? In questo articolo esploriamo il significato della resilienza come soft skill, il suo impatto sul benessere e sulla performance, e come potenziarla attraverso percorsi di formazione mirati.
Innanzitutto partiamo dal significato. La resilienza, in generale, è la capacità di affrontare le difficoltà, adattarsi ai cambiamenti e riorganizzarsi dopo eventi critici, mantenendo equilibrio emotivo e motivazione. In ambito lavorativo, questa qualità si traduce nella prontezza a reagire a pressioni, fallimenti, ristrutturazioni aziendali, nuove tecnologie, obiettivi sfidanti e contesti incerti.
Attenzione però: non si tratta di “resistere stoicamente” a tutto, ma di evolvere attraverso l’esperienza. I professionisti resilienti, infatti, non sono solo quelli che superano gli ostacoli, ma sono soprattutto quelli trasformano in occasioni di apprendimento e crescita.
Secondo il World Economic Forum, la resilienza è tra le competenze trasversali più richieste entro il 2025. Le aziende cercano collaboratori capaci di affrontare l’incertezza con lucidità, di gestire lo stress senza compromettere la produttività, e di contribuire attivamente anche in situazioni complesse.

Resilienza: una competenza sempre più richiesta

La resilienza rappresenta una leva strategica da promuovere nei processi di selezione, nei piani di sviluppo delle risorse umane e nei programmi di welfare aziendale. Questo perché si tratta di una competenza che incide direttamente sulle performance individuali e di team, sul clima organizzativo all’interno dell’azienda, sulla capacità di innovazione, sulla fidelizzazione dei talenti e, soprattutto, aspetto su cui insistiamo spesso, sulla riduzione del rischio di burnout.
Parliamoci chiaro: la resilienza non è solo un possibile un talento innato, ma una competenza che può essere allenata. Ecco perché la formazione professionale gioca un ruolo chiave attraverso, per esempio una formazione esperienziale che si basi su gestione dello stress, intelligenza emotiva e mindfulness, ma anche su simulazioni di situazioni critiche e role playing, oltre che su attività outdoor e team building.

Un tipo di formazione improntata alla resilienza può anche passare attraverso strategie di coaching e mentoring, con percorsi individuali per rafforzare l’autoefficacia e supporto nella definizione di obiettivi e nella gestione delle emozioni, e attraverso la formazione digitale, con corsi online su resilienza, leadership adattiva, change management e webinar e microlearning per una fruizione flessibile.
Per le imprese, promuovere la resilienza significa costruire organizzazioni più agili, capaci di affrontare le crisi senza perdere competitività. Per i consulenti del lavoro, è un’opportunità per proporre soluzioni innovative e personalizzate, che rispondano alle esigenze di un mercato in continua evoluzione.
In un contesto post-pandemico, segnato da instabilità geopolitica, transizione digitale e nuove modalità di lavoro, la resilienza diventa un fattore critico di successo non solo per affrontare le sfide, ma per anticiparle.
Investire nella formazione sulla resilienza significa costruire un mondo del lavoro più sano, più umano e più sostenibile. Perché la vera forza non è resistere, ma trasformarsi.

FORMARE AL TEAM PER LAVORARE BENE INSIEME


La formazione al team work è uno strumento indispensabile per le aziende

Succede ancora troppo spesso: in aziende, startup e organizzazioni ci sono tutte le competenze necessarie per eccellere ma qualcosa comunque non funziona. Magari c’è già un nutrito gruppo di persone con competenze importanti, curriculum brillanti e obiettivi comuni, eppure l’ingranaggio si inceppa per un motivo semplice quanto cruciale: non si riesce a collaborare. Le riunioni diventano inconcludenti, i progetti rallentati e nel frattempo si sedimentano tensioni sotterranee destinate ad alterare gli equilibri.
In questi casi l’imprenditore non sempre sa cosa fare. Forse non sa comprendere il problema, un problema che non è tecnico né strategico bensì relazionale. A mancare non sono le competenze e le eccellenze ma una vera cultura del team work, ossia una vera capacità di lavorare insieme, in squadra, superando la prospettiva individuale.

Oggi, lo sappiamo, il lavoro è sempre più interconnesso, fluido e multidisciplinare e proprio questo è necessario alimentare il lavoro in team, una soft skill che arriva a rappresentare un asset strategico e che può – anzi deve – essere coltivata e rafforzata attraverso un’adeguata formazione aziendale.
Il lavoro di squadra, che non va confuso con la semplice collaborazione, è una competenza complessa che include diverse capacità tra cui la gestione di una comunicazione chiara e assertiva, un’attitudine all’ascolto attivo e all’empatia, oltre che una predisposizione a gestire i conflitti. In ballo c’è poi la capacità di negoziare, la leadership condivisa e, soprattutto, un netto orientamento al risultato collettivo.

Come si può ben immaginare, queste non sono abilità che si possono improvvisare in quanto richiedono molta consapevolezza, esercizio e, in primis, un contesto che le valorizzi. Proprio per questo, da azienda lungimirante, è necessario investire in una formazione dedicata che sappia trasformare i gruppi di lavoro in squadre coese, resilienti e performanti.
Formare i team sul lavoro di squadra significa agire su più livelli. Innanzitutto bisogna partire dalla crescita individuale affinché ogni persona impari a riconoscere il proprio stile relazionale, i punti di forza e le aree di miglioramento. Bisogna poi lavorare sull’efficienza operativa, attraverso cui i team imparano a gestire meglio tempo, risorse e obiettivi condivisi, e sul clima aziendale, così da ridurre le tensioni, aumentare la fiducia reciproca e creare un ambiente più inclusivo.
Ma questo tipo di formazione si apre ad orizzonti ancora più ampi, inglobando l’innovazione: il confronto tra punti di vista diversi, infatti, genera idee nuove e soluzioni creative.

Come formare al team work

Esistono diverse modalità di formazione aziendale che vanno nella direzione di un team work più efficace. Di solito, anziché sulla classica lezione frontale ed estremamente teorica, è meglio puntare su workshop esperienziali, ossia su attività pratiche che simulano dinamiche di gruppo e favoriscono l’apprendimento attivo. In casi specifici, di grande utilità può essere il team building outdoor realizzato dunque attraverso esperienze immersive che rafforzano la fiducia e la collaborazione.

Ma ci sono anche, più semplicemnte, i laboratori di comunicazione che servono per affinare il dialogo interno e la gestione dei feedback, i percorsi blended, che includono formazione in aula e digitale, e il coaching di team, utile per accompagnare i gruppi nella risoluzione di conflitti e nella definizione di obiettivi comuni.
Come già accennato, allenare il team work non significa solo “insegnare a collaborare” ma significa promuovere una cultura aziendale che:

  • Valorizza il contributo collettivo
  • Premia la cooperazione, non la competizione
  • Favorisce l’inclusione e la diversità
  • Sostiene la crescita relazionale, oltre a quella tecnica.

In questo senso, la formazione diventa uno strumento di trasformazione culturale. Un modo per costruire ambienti di lavoro più umani, sostenibili e orientati al benessere.
Investire nella formazione sul lavoro di squadra non è un lusso, ma una necessità. Perché dietro ogni progetto di successo, c’è sempre un team che ha saputo collaborare, comunicare e crescere insieme.

EMPATIA IN AZIENDA: UNA COMPETENZA INVISIBILE E RIVOLUZIONARIA


Una formazione aziendale che punti sull’empatia può essere un vero game changer

È vero: in un momento storico in cui non si fa che parlare di intelligenza artificiale, di automazione e performance, l’empatia ci sembra un po’ una parola fuori moda. Eppure, è proprio questa competenza invisibile a fare la differenza tra un’organizzazione che funziona e una che ispira, tra un team che collabora e uno che innova.
L’empatia, giusto per tentare una sintesi tra le accezioni psicologica e sociale, è la capacità di comprendere e condividere le emozioni, i pensieri e le prospettive di un’altra persona, non solo tentando di “mettersi nei panni dell’altro”, ma cercando di percepire attivamente ciò che l’altro sta vivendo, pur mantenendo una distinzione da sé.
Sebbene questa definizione sia parziale, è certamente migliore di quella offerta dal linguaggio comune in cui l’empatia è spesso confusa con la gentilezza o, peggio, con l’emotività. In realtà, soprattutto in ambito aziendale, si tratta della capacità di comprendere il punto di vista altrui così da adattare la comunicazione e dacostruire relazioni basate sulla fiducia.
Si tratta di una soft skill che in molti trascurano o danno per scontata ma che invece è molto importante perché impatta sulla leadership e sulla gestione del team così come sulla comunicazione interna ed esterna dell’azienda.

L’empatia ha poi anche a che fare con aspetti cruciali come customer care e la fidelizzazione, la risoluzione dei conflitti, l’inclusione e l’innovazione.
Per sintetizzare potremmo dire che l’empatia è il collante che tiene insieme le persone, anche quando lavorano da remoto, sotto pressione o in contesti complessi. Come si può dunque pensare di non investire nell’”allenamento” di questa capacità?

Investire in formazione empatica

Le aziende che promuovono una cultura empatica registrano, infatti, benefici tangibili. Secondo diverse ricerche internazionali:

  • I team empatici sono più resilienti e meno soggetti a burnout
  • I leader empatici generano maggiore engagement e retention
  • I clienti percepiscono più autenticità e attenzione
  • Le organizzazioni empatiche attraggono talenti più motivati e diversi

Inoltre, in un mercato del lavoro sempre più fluido, dove le competenze tecniche si aggiornano rapidamente, quelle relazionali diventano il vero vantaggio competitivo. E questo abbiamo già avuto modo di dirlo nei precedenti articoli di questa rubrica.

Metodi di formazione

Definita l’empatia e la sua complessità, vien da sé che formazione dedicata non possa essere un modulo isolato o un webinar motivazionale ma una parte integrante della strategia HR e della cultura aziendale.
Pertanto tra i percorsi più efficaci ci sono certamente quelli esperienziali, fatti di simulazioni, role play, casi reali ed esercizi di ascolto attivo. Altro aspetto indispensabile di una formazione che tenda all’empatia aziendale è la multidisciplinarità: i corsi, infatti, devono necessariamente integrare psicologia, neuroscienze, comunicazione e design organizzativo e devono anche essere continuativi, dotati quindi di follow-up, feedback e pratiche quotidiane, e inclusivi, ossia rivolti a tutti i livelli, dal top management ai team operativi.
Alcune aziende stanno integrando l’empatia nei processi di onboarding, nei sistemi di valutazione e persino nei criteri di selezione, comprendendo che non si tratta solo di formare le persone, ma di creare ambienti che favoriscano l’ascolto, la sicurezza psicologica e la collaborazione.

Per chi lavora nel mondo HR, nella consulenza del lavoro o nella formazione, l’empatia è una chiave di lettura potente. Permette di comprendere meglio le dinamiche aziendali, facilitare il cambiamento culturale, progettare interventi realmente efficaci e , soprattutto, affrontare temi delicati come stress, diversity, benessere, leadership.
Sempre più aziende stanno infatti collegando l’empatia alla sostenibilità, non solo ambientale ma sociale e relazionale. Un’organizzazione empatica è più attenta alle persone, ai territori, alle comunità ed è più capace di ascoltare, includere, innovare.
In questo senso, l’empatia diventa anche una leva reputazionale e di enorme impatto.

L’empatia è competenza fondamentale per affrontare le sfide del lavoro contemporaneo. In un mondo dove tutto cambia rapidamente, ciò che resta è la qualità delle relazioni e l’empatia è il punto di partenza.
Investire in empatia significa investire in persone, in cultura, in futuro.

LA LEADERSHIP: UNA COMPETENZA CHE SI FORMA, NON SI IMPROVVISA


Formare alla leadership aziendale significa migliorare il clima sul posto di lavoro e la produttività

Il termine leadrship, questo famoso inglesismo che conosciamo un po’ tutti, viene spesso usato con una certa leggerezza. Quello che in italiano possiamo definire come “capacità di guida” o “attitudine al comando”, spesso si attribuisce in maniera automatica a chi ha un ruolo dirigenziale, a chi prende decisioni, a chi sta al vertice. Ma la leadership, quella vera, intesa come competenza relazionale, strategica, emotiva, non coincide sempre con la posizione gerarchica. Non è una competenza che appartiene meccanicamente al dirigente in quanto tale. È qualcosa di più e come tutte le competenze può essere sviluppata. Anzi, deve esserlo.

Per troppo tempo abbiamo creduto al mito del leader “naturale”: quello carismatico, sicuro di sé, capace di trascinare le folle. Oggi però sappiamo che la leadership efficace è molto più complessa perché richiede ascolto, visione, capacità di gestire l’incertezza, di motivare senza manipolare, di creare fiducia anche nei momenti difficili.

Essere leader significa saper costruire contesti in cui le persone si sentano coinvolte, responsabili, libere di esprimere idee e dubbi; Significa saper dire “non lo so” quando serve, e saper dire “ci provo” quando tutti esitano. È una forma di presenza, non di potere.

La leadership in azienda è fondamentale visto che incide direttamente su produttività, clima interno, retention, reputazione. I leader, infatti, influenzano il modo in cui si lavora, si comunica, si affrontano le sfide, e questo impatto può essere positivo o negativo, a seconda del livello di consapevolezza e competenza.
Un leader formato sa gestire i conflitti senza irrigidirsi, dare feedback costruttivi e tempestivi, delegare con chiarezza e fiducia, motivare senza pressioni inutili, sa facilitare il cambiamento anziché subirlo.
Queste sono competenze che non si improvvisano, che richiedono tempo, pratica, confronto.

Ecco perché la formazione alla leadership è fondamentale.
Ed è bene ricordare che investire nella formazione alla leadership non è un costo, ma un investimento perché i benefici derivanti sono molteplici e si riflettono su tutta l’organizzazione.

Un leader ben formato può infatti:

  • Migliorare il clima aziendale: i team guidati da leader consapevoli sono più coesi, meno stressati, più proattivi.
  • Ridurre il turnover: le persone restano dove sentono di poter crescere, essere ascoltate, valorizzate.
  • Prendere decisioni più efficaci: un leader formato sa leggere il contesto, anticipare i problemi, coinvolgere le persone giuste.
  • Favorire la crescita reputazionale: le aziende che investono in leadership sono percepite come più solide, innovative, attrattive.

Inoltre, la formazione alla leadership aiuta a creare una cultura aziendale condivisa, basata su valori come la responsabilità, la trasparenza, la collaborazione. E questo è un vantaggio competitivo che va oltre i numeri.

Ma come deve essere la formazione alla leadership? Questo tipo di formazione, naturalmente, non può essere standardizzato. Ogni azienda ha la sua cultura, i suoi obiettivi, le sue sfide e per questo è importante progettare percorsi su misura, che tengano conto del contesto e delle persone coinvolte.

Continueremo a parlarne nei prossimi appuntamenti della nostra rubrica.

CONFLITTI IN AZIENDA: PARLARSI PER LAVORARE MEGLIO


Investire nella formazione sulla gestione dei conflitti migliora clima, performance e leadership.

Non possiamo negarlo: il conflitto è una presenza immancabile in ogni contesto professionale. Ma attenzione, non sempre è da vedere come qualcosa di negativo. Il conflitto può stimolare il cambiamento, generare nuove idee, mettere in discussione abitudini e pregiudizi e diventa un problema solo quando non viene gestito. Un conflitto aziendale non ascoltato, analizzato e risolto, infatti, può essere un freno alla produttività, minare il benessere dei team e degenerare in dinamiche tossiche.
Ecco perché investire in una formazione mirata alla risoluzione dei conflitti non è solo una scelta etica, ma anche una strategia aziendale vincente.

È bene, prima di tutto, conoscere le varie forme che il conflitto può assumere. Il conflitto, all’interno delle realtà aziendali, può essere sia interpersonale, tra colleghi, spesso legato a differenze di personalità, stili comunicativi o aspettative non esplicitate, sia verticale, quindi tra livelli gerarchici, come manager e collaboratori, spesso alimentato da scarsa comunicazione o leadership inefficace. Ma il conflitto può anche assumere una dimensione interfunzionale: tra reparti o team, dovuto a obiettivi divergenti, mancanza di coordinamento o competizione interna, strutturale, legato a processi aziendali poco chiari, ruoli ambigui o sistemi di valutazione percepiti come ingiusti. Infine, il conflitto può essere anche di tipo culturale, cioè generato da differenze di valori, background o approcci al lavoro, sempre più rilevante in contesti multiculturali.

Di qualunque tipo esso sia, il conflitto aziendale ha un impatto considerevole. Secondo recenti studi, oltre il 60% dei dipendenti ha vissuto almeno un conflitto significativo sul posto di lavoro nell’ultimo anno. Le conseguenze?

  • Calo della produttività
  • Aumento del turnover
  • Peggioramento del clima aziendale
  • Difficoltà nei processi decisionali
  • Stress e disagio psicologico
    E se per il singolo questi effetti si traducono in malessere personale e relazionale, per le aziende si trasformano in costi diretti e indiretti che hanno a che fare con assenteismo, perdita di talenti, reputazione interna compromessa.
    Nonostante queste evidenze, troppo spesso il conflitto viene ignorato o affrontato solo quando è già esploso.

L’importanza della formazione “emozionale”

Per fortuna arriva in soccorso un tipo di formazione che ha a che fare con le emozioni: che le riconosce e le affronta. Una formazione efficace che non si limita a fornire tecniche di mediazione ma si muove su più livelli e coinvolge l’intera cultura aziendale.
La formazione, infatti, consente di anticipare i conflitti, riconoscendo i segnali deboli prima che diventino crisi. Un team formato, d’altronde, è più capace di gestire tensioni quotidiane senza escalation. La formazione poi crea consapevolezza, fiducia e strumenti pratici attraverso i quali tutti i dipendenti si sentono legittimati e capaci di affrontare un conflitto.
Investire nella formazione significa, inoltre, promuovere una cultura aziendale basata sull’ascolto, sulla trasparenza e sulla responsabilità relazionale, un aspetto che impatta direttamente sulla retention, sull’engagement e sulla reputazione interna.

E qui i leader formati assumono un ruolo principale, diventando catalizzatori del cambiamento nella gestione dei conflitti. E proprio di leaderhip parleremo nel prossimo articolo della nostra rubrica.

L’agevolazione si configura come un incentivo concreto per favorire il reinsediamento giovanile in territori fragili e a rischio demografico, promuovendo al contempo modelli di lavoro flessibili e compatibili con le esigenze di sostenibilità ambientale e sociale. Per gli anni successivi, la misura sarà progressivamente ridotta: nel 2028 e 2029 l’esonero sarà pari al cinquanta per cento, mentre nel 2030 sarà limitato al venti per cento, sempre entro i limiti annuali previsti e riparametrati su base mensile.

Restano esclusi dall’agevolazione i premi e i contributi dovuti all’INAIL, mentre l’aliquota di computo delle prestazioni pensionistiche rimane invariata. Questo significa che, pur beneficiando dell’esonero contributivo, il lavoratore continuerà a maturare regolarmente i diritti pensionistici previsti dalla normativa vigente.

I criteri e le modalità di accesso all’agevolazione saranno definiti da un decreto del Ministro del lavoro, adottato di concerto con i Ministri dell’economia e delle finanze, delle imprese e del made in Italy e per gli affari regionali e le autonomie.

Tale decreto dovrà stabilire le condizioni operative, le procedure di richiesta e i controlli necessari per garantire l’effettiva applicazione della misura, evitando abusi e assicurando che il beneficio sia riservato a chi realmente contribuisce alla vitalità dei territori montani.

Questa disposizione si inserisce in un quadro più ampio di politiche pubbliche orientate alla coesione territoriale, alla riduzione delle disuguaglianze tra aree urbane e interne, e alla promozione di forme di lavoro innovative e sostenibili. Il lavoro agile, se correttamente incentivato, può rappresentare uno strumento strategico per rilanciare l’economia locale, attrarre nuove competenze e favorire il radicamento delle giovani generazioni in territori che rischiano l’abbandono.

La Legge n. 131/2025 riconosce dunque il valore delle zone montane non solo come patrimonio ambientale e culturale, ma anche come luoghi di opportunità, innovazione e rinascita sociale. L’agevolazione contributiva per il lavoro agile è un tassello importante in questa visione, che merita attenzione, monitoraggio e piena attuazione.

COACHING E MENTORING: UNA BUSSOLA PER L’IMPRENDITORE


Alcune pratiche e alcuni ruoli specifici possono migliorare radicalmente la vita in azienda

Ciò che separa un’impresa che cresce da una che si spegne, spesso, è la capacità di comunicazione che l’imprenditore riesce ad avere: con se stesso, con i collaboratori, con chi ha già vissuto certe sfide.
In questo spazio relazionale si inseriscono il coaching e il mentoring aziendale, due pratiche che non promettono formule magiche ma che di certo sono in grado di offrire qualcosa di prezioso: una mappa tracciata con esperienza.
In un’epoca in cui l’imprenditore è chiamato a essere stratega, comunicatore, innovatore e spesso persino psicologo, il coaching e il mentoring diventano strumenti importanti per non perdersi nel ruolo e ritrovare la direzione.
Coaching e mentoring: simili, ma non uguali

Il coaching è un processo strutturato, orientato all’azione. Il coach non dà risposte, piuttosto fa domande. Aiuta a chiarire obiettivi, superare blocchi, allenare competenze. Crea, insomma, una relazione che accelera il cambiamento, stimola il pensiero critico (alcune tra le soft skills di cui abbiamo già parlato negli articoli precedenti) e porta a risultati misurabili.


Il mentoring, invece, è una relazione più fluida e spesso più lunga. Il mentor è una figura esperta, che condivide visione, errori, intuizioni. Non guida con tecniche, bensì con storie, ed è una presenza che ispira, che apre connessioni, che offre prospettive.

Ma perché crediamo che queste figure servano all’imprenditore? Semplicemente perché l’imprenditore, per definizione, è immerso nel rischio. E il rischio, senza confronto, può diventare isolamento. È così che coaching e mentoring possono offrire uno spazio protetto per pensare, per sbagliare, per ricalibrare.
Attraverso questi strumenti è infatti possibile arrivare a obiettivi fondamentali come l’organizzazione, la gestione dello stress e delle emozioni, la costruzione di una cultura aziendale più consapevole, l’espansione del proprio network e della propria visione.
Alla luce di tutto questo, l’inserimento del coaching e del mentoring in un piano di formazione aziendale diventa davvero strategico. Si tratta difatti di una scelta che si limita ad aggiungere “moduli” a un catalogo ma che consente di ripensare la formazione come esperienza trasformativa, non solo informativa

Ecco alcune modalità efficaci:
Coaching individuale per figure chiave: imprenditori, manager e team leader possono beneficiare di percorsi personalizzati, mirati allo sviluppo di competenze strategiche e soft skills.
Mentoring interno tra senior e junior: valorizzare le competenze già presenti in azienda creando relazioni di scambio tra generazioni professionali. Questo rafforza la cultura aziendale e favorisce la retention.
Sessioni di gruppo e peer coaching: incontri facilitati tra pari per condividere sfide, soluzioni e buone pratiche. Ottimo per team creativi o in fase di trasformazione.
Formazione blended: integrare coaching e mentoring con workshop, e-learning e attività esperienziali. Il risultato è un percorso formativo più completo e coinvolgente.
Monitoraggio e feedback continuo: usare strumenti di valutazione qualitativa per misurare l’impatto delle relazioni di coaching e mentoring nel tempo.
In questo modo, il piano di formazione non diventa solo un investimento tecnico, ma un vero motore di evoluzione culturale.
Certo, ci sono i benefici misurabili: più focus, più efficacia, più risultati. Ma ce ne sono altri, meno visibili e forse più importanti: la sensazione di non essere soli. La possibilità di pensare ad alta voce con qualcuno che ascolta davvero. La costruzione di un’identità imprenditoriale più autentica, coerente con i propri valori.
In un mondo che premia la velocità, il coaching e il mentoring invitano alla profondità.
E questo, oggi, è un vantaggio competitivo.

FORMAZIONE: QUANDO IL TERRITORIO DIVENTA AULA


La formazione è uno strumento cruciale. Soprattutto se incontra le esigenze specifiche del territorio

L’abbiamo detto a più riprese: in un momento storico caratterizzato da trasformazioni rapide e continue, parlare di formazione significa parlare di futuro.
Ma quale futuro e, soprattutto, per chi?

La risposta a questa importante domanda non può di certo prescindere dal contesto: ogni realtà, ogni azienda, ogni territorio ha una sua identità economica, sociale e culturale, e proprio da questa identità dovrebbe partire ogni progetto formativo rivolto ai lavoratori.
Una riflessione del genere è sorta all’indomani di un recente incontro “Operatività Subito: Modello Servizi e Affiliazione” con cui Co.N.A.P.I. Puglia ha ufficialmente avviato il proprio modello operativo regionale e in cui si è ampiamente parlato anche di formazione professionale.

Anche in relazione alla struttura territorialmente ramificata della Co.N.A.P.I., è necessario pensare alla formazione non come a un processo standardizzato. Oggi, sinfatti, sempre più enti pubblici, aziende e istituzioni educative riconoscono che la formazione efficace nasce dall’ascolto del territorio: dalle sue imprese, dalle sue vocazioni produttive, dalle sue fragilità e potenzialità.
È presto detto che un distretto industriale ha esigenze diverse rispetto a una zona rurale in transizione ecologica, così come ha bisogni diversi da un’area urbana con forte presenza culturale e turistica che richiede competenze relazionali, linguistiche e creative.
La formazione, infatti, non è solo trasmissione di saperi, ma costruzione di senso e opportunità.

Competenze che generano valore locale

Quando i percorsi formativi sono progettati in sinergia con le realtà locali, accade qualcosa di potente: i lavoratori non solo acquisiscono competenze, ma diventano agenti di sviluppo. Le imprese trovano risorse qualificate che parlano il linguaggio del territorio e le comunità si rafforzano, perché il sapere non resta astratto ma si traduce in impatto concreto.
Ecco perché è fondamentale investire in modelli formativi flessibili, co-progettati con chi opera direttamente sul territorio: è solo così che la formazione diventa davvero uno strumento di coesione, innovazione e resilienza.

In altre parole, potremmo dire che serve un patto educativo che metta al centro il lavoratore e il territorio, un patto che riconosca il valore dell’esperienza, della diversità dei percorsi, della formazione continua. Un patto, insomma, che sappia leggere i cambiamenti – tecnologici, ambientali, culturali – e tradurli in opportunità.

In questo senso, la formazione costruita con attenzione al territorio non è solo una strategia, ma una visione: quella di un’Italia che cresce valorizzando le sue differenze e che investe nel capitale umano come leva di trasformazione.

PROBLEM SOLVING: LA DIFFERENZA TRA CHI RISOLVE I PROBLEMI E CHI LI SUBISCE


La capacità di affrontare e risolvere situazioni complesse è la chiave per la competitività

In quanti curriculum vitae si legge, alla voce competenze, l’ormai proverbiale “problem solving”?
In moltissimi.
Ma quanti lavoratori possiedono davvero questa competenza?
Forse meno di quelli che speriamo.

Eppure il problem solving, ossia la capacità di affrontare e risolvere situazioni complesse o inaspettate in modo efficace, creativo e strutturato, è un fattore indispensabile in qualsiasi contesto lavorativo. È una soft skill che consente un vantaggio competitivo tangibile e che assicura la tenuta e la resilienza di un’azienda.

Il buon problem solver è infatti colui che riesce a mettere in atto una serie di azioni strategiche che possiamo così riassumere:

identificazione del problema: capire esattamente qual è la difficoltà da affrontare,
analisi delle cause: individuare i fattori che hanno generato il problema,
generazione di soluzioni: elaborare diverse opzioni, anche creative,
valutazione e scelta: confrontare le alternative e selezionare quella più efficace,
implementazione: applicare la soluzione con un piano d’azione concreto,
monitoraggio e revisione: verificare i risultati e, se necessario, correggere il tiro.

Sembra qualcosa di estremamente macchinoso e, invece, è un’azione quasi istintiva data spesso da una predisposizione naturale.
Ma se la predisposizione naturale manca?
Il problem solving non è solo un talento innato ma una competenza che si può coltivare e, in contesto aziendale sempre più dinamico e complesso, investire nello sviluppo di questa capacità può costruire fondamenta solide per affrontare il futuro con sicurezza e creatività.
Allenare il problem solving è possibile attraverso un’adeguata formazione aziendale che punti su alcuni fattori come il training del pensiero critico (mettere in discussione ipotesi, analizzare cause ed effetti, valutare le conseguenze delle decisioni), la spinta alla collaborazione (creare team multidisciplinari, stimolare il confronto di idee, utilizzare tecniche come brainstorming) e lo sviluppo dell’intelligenza emotiva.
Le aziende che investono nella formazione focalizzata su questa competenza non solo migliorano la qualità delle decisioni interne, ma creano un ambiente più proattivo, autonomo e orientato ai risultati.

E per l’imprenditore, questo si traduce in vantaggi tangibili: meno sprechi, più efficienza, maggiore competitività.
Un investimento sul training del problem solving comporta infatti la riduzione dei costi operativi, visto che dipendenti capaci di risolvere problemi riducono tempi morti, errori e sprechi, ma anche una maggiore autonomia del team, considerata la minore dipendenza dal management per ogni decisione. Significa poi accelerare l’innovazione con soluzioni creative che generano nuovi prodotti, servizi e modelli di business, e implica anche la creazione di una cultura aziendale più solida: un team che affronta le sfide con metodo e fiducia è infatti più coeso e motivato.
Su cosa investire, dunque? Ecco alcuni esempi:
Corsi e Workshop Tematici
Formazione Esperienziale
Coaching e Mentoring
Valutazione e Feedback Continuo
Formare al problem solving non è un costo, è un investimento. Per l’imprenditore significa costruire un’azienda capace di affrontare l’imprevisto, di innovare e di crescere in modo sostenibile.
In un mondo dove il cambiamento è l’unica costante, la vera differenza la fa chi sa risolvere problemi meglio e prima degli altri.

INTELLIGENZA EMOTIVA: UN CAPITALE PER LE AZIENDE


La capacità di comprendere e gestire le emozioni aumenta credibilità e produttività aziendale

Immaginate un’azienda dove le riunioni non iniziano con tensione, ma con ascolto. Dove i leader non alzano la voce, ma le antenne. Dove i collaboratori non si limitano a eseguire, ma si sentono parte di qualcosa che li comprende.
Quella che state visualizzando è, essenzialmente, un’azienda dove le emozioni non solo sono un ostacolo ma una risorsa, dove i momenti di stress non vengono ignorati ma gestiti e dove i successi non sono solo numeri ma storie condivise. Un’azienda, insomma, in cui l’intelligenza emotiva non è un concetto astratto ma una pratica quotidiana che si respira nei corridoi, nei capannoni, negli uffici, che si riflette nelle decisioni e che, soprattutto, si sente nelle relazioni.

Ma cos’è l’intelligenza emotiva?

L’intelligenza emotiva è quella soft skill ( https://www.conapimagazine.it/2025/09/03/hard-e-soft-skills-investire-sulle-competenze/) che permette di riconoscere, comprendere e gestire le proprie emozioni e quelle degli altri. Si tratta di una competenza indivuale che può però diventare un vero e proprio asset aziendale se promossa, coltivata e sviluppata attraverso un’adeguata formazione.

Ma andiamo più a fondo. L’intelligenza emotiva si articola in cinque pilastri fondamentali:

  • Autoconsapevolezza: saper riconoscere le proprie emozioni e il loro impatto.
  • Gestione emotiva: saper regolare le emozioni, soprattutto sotto stress.
  • Motivazione: orientare le emozioni verso obiettivi positivi.
  • Empatia: comprendere le emozioni altrui, anche non espresse verbalmente.
  • Competenze sociali: costruire relazioni efficaci e gestire i conflitti.
    Queste competenze, come si può facilmente intuire, sono molto preziose perché non solo migliorano il clima aziendale, ma hanno un impatto diretto sulla produttività, perché team più coesi e motivati lavorano meglio, e sulla leadership, poiché i leader emotivamente intelligenti ispirano fiducia e coinvolgimento.
    Puntare sull’intelligenza emotiva significa poi anche assicurarsi una buona gestione del cambiamento, con fisiologiche transizioni e crisi affrontate con maggiore resilienza, e un’ottima attrattività e reputazione aziendale.

In molte aziende italiane, ad oggi, l’intelligenza emotiva è ancora vista come un “plus” opzionale, una qualità personale che alcuni hanno e altri no. Ma i dati e le esperienze sul campo raccontano una realtà diversa: quando le organizzazioni investono nella formazione emotiva, i risultati si vedono. E si misurano.

Le aziende – per fortuna in crescita – che stanno introducendo percorsi formativi dedicati all’intelligenza emotiva, con workshop, coaching individuale e laboratori esperienziali, stanno infatti sperimentando un ritorno tangibile.
Le aziende che promuovono l’intelligenza emotiva riescono a costruire una cultura più umana, attrattiva e sostenibile: in un mercato del lavoro dove i valori contano quanto lo stipendio, essere percepiti come un luogo che valorizza il benessere mentale è un vantaggio competitivo.
L’intelligenza emotiva è dunque una leva strategica per migliorare le performance e per costruire ambienti in cui le persone possano crescere, contribuire e sentirsi parte di qualcosa di significativo. In quest’ottica, la formazione emotiva non va vista come una “moda” ma come una risposta concreta alle sfide del lavoro contemporaneo, dove la complessità relazionale è spesso più difficile da gestire di quella tecnica.

Perché il vero capitale di un’azienda non è solo quello economico, ma quello emotivo.

HARD E SOFT SKILLS: INVESTIRE SULLE COMPETENZE


La formazione aziendale ha a che fare sia con le competenze tecniche sia con quelle trasversali

È un fatto assodato: la formazione è importante e determina, oggi più che e mai, la sopravvivenza e la crescita di un’azienda (inserire link a precedente articolo “Formo dunque sono”).
Ma la formazione su cosa deve concentrarsi? Quali sono le competenze su cui investire?

In quest’ottica, è prima di tutto necessario distinguere tra competenze tecniche e competenze trasversali, meglio conosciute come hard e soft skills: due facce della stessa medaglia, entrambe fondamentali per il successo individuale e organizzativo.
Le hard skills sono competenze tecniche e specifiche, facilmente misurabili e spesso acquisite tramite studio, corsi o esperienza pratica. Sono insomma quelle skills che consentono di fare uno specifico lavoro, di diventare un professionista in una determinata materia. Per fare qualche esempio pratico, in ambito sanitario le competenze tecniche hanno a che fare con la conoscenza dei protocolli medici o l’uso degli strumenti diagnostici, mentre in ambito informatico hanno a che vedere con la capacità di programmazione o con l’uso di software complessi.
Le soft skills sono tutt’altra cosa. Sono competenze legate al comportamento, alla comunicazione e all’intelligenza emotiva. Non si imparano a scuola o all’università: sono innate o si sviluppano nel tempo, spesso attraverso esperienze formative, personali e professionali.

Sono quindi le capacità che più che con il professionista hanno a che fare con la persona. E si tratta di competenze preziose per le aziende. A chi non serve personale capace di lavorare in team o di risolvere problemi? E non si tratta solo di problem solving. Alle aziende servono risorse che abbiano una buona adattabilità, uno spiccato pensiero critico, uno spirito empatico e, in diversi casi, un’attitudine alla leadership. E queste sono tutte soft skills.

Entrambe le tipologie di competenze sono essenziali – le hard skills garantiscono competenza tecnica e produttività, le soft skills favoriscono la collaborazione, la resilienza e l’innovazione – e spesso le soft skills sono persino più ricercate. Numerosi studi HR, infatti, rivelano che le competenze trasversali sono più difficili da trovare e più preziose nel lungo termine.

Un futuro ibrido tra hard e soft skills

La vera forza di un professionista sta dunque nell’equilibrio tra hard e soft skills. Ma questo bilanciamento non può riguardare soltanto l’impegno personale del singolo lavoratore. Le aziende più lungimiranti, infatti, condividono questo compito investendo in programmi di formazione che includono entrambi gli aspetti, consapevoli che il talento non è solo sapere cosa fare, ma anche come farlo insieme agli altri.

A proposito di “fare”. Quando si parla di soft skills si fa spesso riferimento all’importante trittico fare, saper fare e saper essere.
Il fare è la dimensione che riguarda ciò che una persona fa concretamente nel contesto lavorativo, ciò che si manifesta nei comportamenti osservabili, come collaborare attivamente in un team, comunicare in modo chiaro e rispettoso, gestire i conflitti con diplomazia, prendere decisioni in situazioni complesse.
Il saper fare indica la capacità di applicare le soft skills in modo consapevole e strategico. Non basta agire, bisogna sapere come agire. E quindi si parla di competenze come saper negoziare con empatia, saper motivare un team in difficoltà, saper gestire il tempo e le priorità, sapersi adattare ai cambiamenti.
C’è poi, infine, il saper essere , la dimensione più profonda che ha a che fare con l’atteggiamento, i valori e la consapevolezza di sé e quindi con tutto quello che rende autentiche le soft skills. Qualche esempio? Essere affidabili e coerenti, essere aperti al feedback, essere curiosi e proattivi, essere rispettosi e inclusivi.

Sì, è vero che molto spesso si tratta di caratteristiche innate. Ma altrettanto spesso si tratta di competenze che possono essere sviluppate, allenate, potenziate attraverso una formazione mirata ed efficace.

E quindi, alla fine di questo articolo, come in un circolo virtuoso, torniamo alla prima frase: è un fatto assodato: la formazione è importante.
Di come farla al meglio, poi, parleremo nei prossimi articoli.